Skip to main content

L’invecchiamento della popolazione italiana ed europea è un fatto ormai noto a tutti. Questo è in parte il risultato di un decremento delle nascite nei paesi occidentali e rischia di produrre un grave dislivello nel ricambio generazionale. Tra i fattori all’origine del fenomeno ve n’è tuttavia anche uno positivo, ovvero l’incremento dell’aspettativa di vita nel corso del tempo.

Oggi in Italia l’aspettativa di vita è infatti di 83,4 anni (81 circa per i maschi, 85 per le femmine). In quindici anni (dal 2010) l’incremento è stato di quasi due anni: nel 2010 ci si aspettava che un italiano vivesse di norma 81,7 anni. Due anni di vita in più grazie al (tanto bistrattato) sistema sanitario, ai progressi in medicina, alle condizioni igieniche, all’informazione e promozione riguardo stili di vita più salutari, ecc. Il nostro paese, tra l’altro, è secondo solo alla Spagna per aspettativa di vita in Europa, dove a fronte di paesi in cui si vive oltre gli ottant’anni (Europa occidentale, tra cui l’Italia), vi sono paesi in cui si vive anche 6-7 anni in meno (Est Europa).

L’Istat ci informa che differenze notevoli si trovano anche nel nostro paese, visto che una donna del Trentino-Alto Adige vive circa sette anni in più (non sono pochi) di un uomo della Campania (86,7 contro 79,7), a testimoniare il permanere di un importante divario Nord-Sud circa l’accesso alle cure sanitarie, oltre che all’informazione, alla prevenzione, e via discorrendo.

Se vogliamo considerare la nostra società moderna e progredita sul piano socio-sanitario, è fondamentale tuttavia puntare non solo all’incremento numerico degli anni di vita, ma anche alla loro qualità, cosa che riguarda inoltre un sempre più ampio numero di persone, visto che gli ultrasessantacinquenni nel nostro paese sono ormai circa ¼ della popolazione, una percentuale davvero considerevole. Alcuni dati Istat da questo punto di vista sono incoraggianti: ci dicono che mentre nel 2009 meno del 30% degli anziani riferiva di essere in buona salute, oggi questa percentuale è salita a circa il 38%. In vent’anni sono inoltre saliti di quasi dieci punti percentuali gli anziani che praticano ancora sport (dal 6,7% al 16,4%), a testimonianza di una buona condizione fisica.

L’incremento dell’aspettativa di vita nella popolazione ha tuttavia portato con sé un fenomeno nuovo e inaspettato. Nel 1960 soltanto il 3,4% delle persone tra i 50-64 anni si prendeva cura di un genitore anziano, mentre oggi la stessa fascia di popolazione si occupa di un genitore anziano nel 16% dei casi (circa il 500% in più!). Nel 1960, l’aspettativa di vita in Italia era infatti di 68,9 anni, ben 14 anni di meno del 2025. Gli anziani vivono quindi più a lungo, ma ciò implica anche che, purtroppo, aumentino i casi di demenza, per il semplice motivo che il rischio di deterioramento neurocognitivo è correlato all’età, tanto che si passa da una probabilità dell’1-2% a 65 anni ad una di circa il 40% degli ultranovantenni. In Italia oggi vi sono circa 1.2 milioni di persone affette dalle varie forme di demenza (nel 50-60% dei casi si tratta della demenza di Alzheimer), cifra che corrisponde a circa il 2% della popolazione e destinata a raddoppiare in 25 anni: nel 2050 si prevedono 2.3 milioni di casi di demenza nel nostro paese.

Pertanto, se nel recente passato la sfida di una comunità era quella di migliorare le condizioni di vita delle persone, le loro condizioni di lavoro, il loro reddito, migliorare la loro salute – e quindi, implicitamente, allungarne la vita –, oggi l’obiettivo diviene quello di permettere alle persone di conservare il più a lungo possibile il loro benessere fisico e psicologico ed in particolare quello cognitivo. In altre parole, l’obiettivo attuale è quello di ridurre ove possibile il rischio di demenza, diagnosticare precocemente e spostare il più in avanti possibile il sopraggiungere dei processi di decadimento cognitivo. L’incremento meramente cronologico delle aspettative di vita non è quindi più l’obiettivo prioritario, ma lo è invece quello di prolungare la fase in cui sia possibile avere una buona qualità di vita, vivere consapevolmente l’ambiente circostante e potersi relazionare affettivamente con i propri cari.

Vanno chiaramente in questa direzione i nuovi promettenti studi e le recenti scoperte che stanno favorendo una diagnostica sempre più precoce dell’Alzheimer, tra cui l’individuazione di un nuovo gene responsabile della malattia da parte di un gruppo di ricercatori torinesi e la ricerca sui possibili biomarcatori della malattia. Inoltre, pochi mesi fa la Commissione Europea ha approvato un anticorpo monoclonale, il lecanemab, il primo ad ottenere un via libera europeo per il trattamento dell’Alzheimer in fase precoce. Il farmaco agisce riducendo il carico di placche amiloidi nel cervello, allo scopo di rallentare la progressione della malattia.

 

Emilio Franceschina-Direttore di Casa don Luigi Maran